Nato a Grezzana l'11 settembre 1924 residente a Verona in via Calderini n. 7.
Numero di Iscrizione 5906377 – pensione di 4^ categoria – cartella della Sezione n. 247 V.
Arma di appartenenza Artiglieria – 132° soldato
Fatto prigioniero a Rovereto dai Tedeschi e portato in prigionia in Germania l'8 settembre 1943 – stammlager M – IV A numero prigioniero 2852 IB – lager 778
Rimpatriato il 25 giugno 1945
Invalidità di guerra per pleurite destra contratta nel 1944 fu ricoverato in periodi diversi fino al 1950 presso il Sanatorio del Chievo.
"Sono partito da casa il 30 agosto 1943 con destinazione Rovereto, dove mi assegnarono al 132° Artiglieria moto corazzata, Divisione Ariete.
Nella notte dell'Armistizio io, assieme a tutte le altre reclute, siamo stati catturati e disarmati dai tedeschi e, nel mattino del nove, rinchiusi in un campo sportivo di Rovereto. Il giorno successivo ci portarono in stazione dove ci caricarono su dei carri bestiame, 45/50 soldati su ognuno e partimmo con destinazione Germania. Durante il percorso caricarono altri soldati che, come me, erano stati fatti prigionieri. Dopo 5 giorni senza mangiare e tutto il resto, siamo arrivati al campo di concentramento 1B di Arlestein, nella Prussia Orientale.
Un giorno, durante la distribuzione del rancio, un compagno poco più avanti di me, ebbe da ridire per una confusione ingeneratasi ed il comandante tedesco senza indugio estrasse la pistola e lo freddò sul colpo, così a sangue freddo.
Questo è stato il primo approccio con i tedeschi...!
Verso la metà di novembre ci spostarono in un altro campo, il M Stanlager IV° A e fummo messi in isolamento per dieci giorni. Poi finimmo a lavorare in alcune acciaierie e proiettilifici di Freital, presso Dresda. Lì inizio il mio calvario con turni di lavoro settimanali alternati, giorno e notte, ma sempre di dodici ore al dì.
Questa era la vita che facevamo: sveglia alle 4, prima dell'alba e distribuzione di un etto di pane. Marcia per tre chilometri e alle sei pronti per il lavoro che terminava alle 18. Si rientrava in baracca dove veniva distribuita una brodaglia di spinaci o rape: quello era il rancio. In senso inverso si faceva il turno di notte.
Con il passare dei mesi le forze cominciarono a venir meno e la febbre era quotidiana, ma questo non ci esonerava dal lavoro. Arrivai a pesare 35 chili.
Pregavo sempre "Quello che sta lassù" e finalmente iniziai a stare meglio. In quel periodo gli alleati bombardarono Dresda che, in 18 giorni, fu rasa al suolo a causa degli incendi e delle esplosioni e ci furono trecentomila morti.
Fummo incaricati di sgombrare le macerie e seppellire i cadaveri e lì incontrai l'orrore dei bombardamenti e della guerra. Considero il 1944 come l'anno più terribile e triste della mia giovinezza perché ero costretto a compiere azioni terribili di cui alcuni dettagli sono incisi nella mia memoria indelebilmente.
Nei primi mesi di quell'infame anno sono stato prelevato dalla fabbrica in piena notte dalla Feldegendarmerie, così si chiamava la polizia militare tedesca, e portato nella loro questura dove mi accusarono di sabotaggio per alcuni errori commessi in fabbrica.
Il direttore dello stabilimento mi difese e tutto fu rimesso a posto. Fu un vero miracolo perché, dopo alcuni giorni, quel direttore fu accusato e riconosciuto come un agente dei servizi americani.
Ad una successiva visita di sanitari fu riconosciuto a me ed a una trentina di camerati uno stato acuto di denutrizione. Ritornarono con l'incarico di portarci al lazzaretto ma, in quel momento io ero in fabbrica e rimasi nel campo a lavorare come prima.
Iniziarono i dolori alla schiena e la febbre ma, essendo meno di 38, non mi mettevano a riposo. Evidentemente non era la mia ora e, in un paio di mesi, mi rimisi in carreggiata.
Nel febbraio del '45, a causa dei bombardamenti su Dresda, le fabbriche dovettero fermarsi non avendo più rifornimento di materie prime. Ci mandarono quindi a scavare fosse anticarro. Lì fummo bombardati e ci fu il fuggi fuggi di civili e prigionieri di varie nazioni e lì accadde un episodio singolare.
Eravamo in quattro o cinque, sdraiati per terra quando udimmo un fischio e un tonfo molto vicini. Si trattava di una bomba inesplosa ed anche quella volta andò bene!
Di quei fatti della prigionia ciò che mi è rimasto più impresso è senza dubbio il trattamento riservatoci dalle guardie. Le guardie del campo erano quasi tutte invalidi di guerra e il loro scopo era quello di renderci la vita ancora più difficile di quanto già fosse. Poteva succedere che all'una o alle due di notte fossimo costretti a svegliarci, ad uscire fuori dalla baracca al freddo, con pochi stracci indosso, per cantare "Mamma" e piangere di conseguenza per la nostalgia e per la stanchezza accumulata dopo dodici ore di lavoro. Altre volte ci obbligavano a delle ispezioni svegliandoci proprio per logorarci nel corpo e nella mente.
Nell'inverno del 1944, per esempio, ci portarono in una pineta accanto al campo per assistere alla fucilazione di un italiano accusato di aver sottratto qualcosa durante lo sgombero di alcune macerie. Molte altre tremende cose sono successe in quell'orrendo luogo ma ora, a distanza di tanti anni, non riesco sempre a distinguere la realtà vissuta dagli incubi che mi assalgono.
Alla metà di marzo 1945 cominciammo la ritirata insieme alle truppe tedesche e ai civili che scappavano su dei carri. C'era di tutto su quelle strade: armi, mezzi di trasporto, munizioni abbandonate che, a volte, finivano sotto le ruote dei carri e le facevano esplodere. Una grande baraonda e in essa a un certo punto mi trovai senza le scarpe. Così cercai degli stracci e mi avvolsi i piedi con essi per continuare la marcia, fino al 9 maggio, giorno della resa delle truppe tedesche e fine della guerra.
Gli americani ci inviarono dai russi...i russi ci fecero tornare dagli americani che ci fecero tornare dai russi. Così per un giorno intero, come dei pacchi scomodi.
Poi ci avviammo verso una cittadina cecoslovacca presieduta da partigiani locali che, appena ci videro ci accolsero insieme ai cittadini e ci sfamarono, finalmente! Ci portarono perfino del vino. Un partigiano, accortosi dello stato dei miei piedi, mi portò nel campo dei prigionieri tedeschi e, controllando per bene, scelse un paio di scarpe della mia misura e le fece togliere al prigioniero per darmele.
Attraversammo la Cecoslovacchia, arrivammo in Austria e, a Linz, gli americani ci misero in quarantena fino al 24 giugno. Una tradotta ci portò subito dopo Bolzano.
Era il 25 giugno e ritornavo in Patria.
A casa c'era anche un vecchio zio che, commosso, mi accolse con queste parole:
"Buteleto te si tornà a casa eh! Come steto?"
"E mi dalla contentessa go' dato un baso"
E ora, caro diario, mi devi scusare se ti ho caricato di un po’ dei miei oscuri ricordi anche se, per non appesantirti di più, ho tralasciato di dirti tutte le umiliazioni, le botte, le torture psicologiche, la fame, la sporcizia, i pidocchi, la situazione igienica ed il fatto di non essere considerato una persona ma un numero.
Questa situazione quotidiana me la tengo per me perché solo chi l'ha vissuta in prima persona può capirla.
A te, mio diario, devo però chiedere un importante favore: se mi potessi ridare i miei 19 e 20 anni che mi sono stati tolti...ma so che è impossibile.
La cosa importante è che sono tornato a casa vivo, con l'aiuto della Madre Celeste, e che ciò che è successo non abbia da ripetersi più".
Soldato Giorgio Veneri